Onorevoli Colleghi! - In una questione così difficile, così drammaticamente coinvolgente la coscienza della donna (e di tutti) come quella dell'aborto, è ammissibile che dominino ipocrisia e inganno? Noi riteniamo di no. Per questo presentiamo una proposta di legge che rappresenta in primo luogo un'operazione di pulizia e di chiarezza.
      La sostanza della proposta di legge sta nell'abolizione della figura del cosiddetto «aborto di Stato» e nella previsione di misure che possano facilitare le donne nell'accesso alle tecniche contraccettive e abortive, in modo che possa essere evitata o resa meno traumatica una scelta, già di per sé drammatica, come quella di interrompere una gravidanza.
      Con la proposta di legge si prevede la possibilità per la donna di interrompere la propria gravidanza senza dover dimostrare a un medico l'esistenza di problemi personali e si prevede inoltre la possibilità di praticare l'aborto anche nelle strutture sanitarie private oltre che in quelle pubbliche.
      Infine, si è disciplinata la possibilità di interrompere la gravidanza utilizzando le tecniche di aborto farmacologico, (con la pillola RU486, già ampiamente diffusa in altri Paesi europei) e si facilita l'accesso alle tecniche contraccettive, quali ad esempio la cosiddetta «pillola del giorno dopo».
      La presentazione della proposta di legge si è resa necessaria in quanto la legge n. 194 del 1978, e le applicazioni che ne sono state fatte, hanno determinato una serie di difficoltà e di non più tollerabili contraddizioni. L'articolo 1 della legge

 

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n. 194 del 1978 stabilisce che lo Stato «tutela la vita umana dal suo inizio».
      Negli articoli successivi sono indicate le ipotesi nelle quali lo Stato ritiene di poter comunque autorizzare l'aborto. In particolare, esso è consentito entro i primi novanta giorni di gravidanza, purché la donna dichiari per iscritto, e un medico accerti, che la maternità potrebbe comportare un «serio pericolo per la sua salute fisica o psichica», oppure che potrebbe determinare altri gravi disagi legati «alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari». Insomma, lo Stato non osa riconoscere che solo la donna può scegliere se diventare madre o no. Tuttavia «ammicca» alla donna e le spiega che può comunque abortire, a condizione che dichiari, non la propria verità quale che sia, ma ciò che nella maggioranza dei casi è un falso, e cioè l'esistenza di problemi di salute, magari psichica, o l'esistenza di difficoltà economiche. Il medico, in questo contesto, è chiamato ad essere testimone-complice della falsa dichiarazione.
      Una seconda grave incongruenza della legge n. 194 del 1978 è quella che deriva dal fatto che, pur essendo l'aborto consentito nel nostro ordinamento, ne viene impedita la pratica nelle strutture sanitarie private a differenza di quanto accade per ogni altro intervento sanitario.
      Tale questione acquista un rilievo e una valenza ulteriori nelle zone in cui vi è una forte presenza di medici obiettori nelle strutture pubbliche, che determina difficoltà e ritardi nella predisposizione degli interventi sanitari più opportuni a tutela della possibilità di scelta e della salute della donna.
      All'obiezione per la quale si sostiene che la legge n. 194 del 1978 nei fatti comunque funzioni, rispondiamo che ciò è vero solo in parte e, quasi sempre, solo grazie ad ipocrisie e menzogne che sono richieste e imposte dalla stessa legge.
      L'approvazione della proposta di legge, che rimanda alla responsabilità e alla coscienza della donna le decisioni relative all'interruzione della gravidanza, è a nostro avviso l'unica strada seria da percorrere per evitare che si arrivi all'imposizione di ulteriori limiti alla possibilità di scelta della donna e quindi all'aumento degli aborti praticati in modo clandestino, con drammatiche conseguenze per la salute di centinaia di migliaia di donne.
 

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